IL TEMPO: NON FATE DI AMBROGIO CRESPI UN NUOVO ENZO TORTORA

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“I DON’T DREAM AT NIGHT, I DREAM AT DAY, I DREAM ALL DAY; I’M DREAMING FOR A LIVING.” - Steven Spielberg

Di Luca Rocca per Il Tempo – L’inizio del suo calvario porta la data del 10 ottobre 2012, giorno in cui Ambrogio Crespi, regista e fratello di Luigi, ex sondaggista di Berlusconi, viene sbattuto in galera, prima a Regina Coeli e poi al carcere milanese di Opera. Dietro le sbarre resta 200 giorni, 65 dei quali in isolamento. L’accusa è tremenda: aver procacciato voti in ambienti ’ndranghetisti per farli confluire sull’ex assessore della Regione Lombardia Domenico Zambetti, candidato alle elezioni regionali del 2010.

A tirarlo in ballo, però, è Eugenio Costantino, considerato un referente di alcune famiglie della ‘ndrangheta lombarda, ma soprattutto millantatore reo confesso e compulsivo che una perizia psichiatrica descrive come una persona affetta da “disturbi istrionici e narcisistici”. Sarebbe bastato questo per evitare l’inferno a Crespi. Non è bastato.

L’8 febbraio 2017, infatti, Crespi viene incredibilmente condannato a 12 anni di reclusione. Come fosse un boss. E invece lui certi ambienti non li ha mai nemmeno sfiorati. Eppure, urlare la sua innocenza non serve, inutili risultano sit-in e flash-mod, e anche lo sciopero della fame di suo fratello. La famiglia lotta, pubblica in rete le carte del processo, perché nulla deve essere celato, perché non c’è niente di cui vergognarsi, perché Crespi è innocente.

Innocenza su cui giura per primo Marco Pannella, e con lui l’ex segretaria del Partito Radicale Rita Bernardini, che si intestano la battaglia per tirare fuori di prigione Crespi, la cui vicenda viene definita “il nuovo caso Tortora”. Anche sui social parte la battaglia per Crespi, con una campagna intitolata #CrespiLibero e #IoStoConAmbrogio.

Mille persone aderiscono allo sciopero della fame e firmano una petizione per la sua liberazione. Il suo caso finisce sui giornali e nei tg nazionali, e in suo sostegno scendono in campo, oltre ai Radicali, anche giornalisti e politici di destra e sinistra. L’ex governatore del Lazio, Francesco Storace, gli offre una candidatura in parlamento, garanzia di scarcerazione. Crespi, però, padre da poco, rifiuta: “Sono entrato da cittadino, uscirò da cittadino, la mia innocenza non è discutibile e nessuna immunità può regolarla”.

Dalla prigione scrive: “Sono carne da macello chiuso in un blocco di cemento armato. Mi stanno impedendo di fare la cosa più importante al mondo, il papà”. Sette mesi di carcerazione preventiva, fino al 27 aprile 2013, giorno in cui riassapora la libertà. Il gip di Milano Alessandro Santangelo (con il parere positivo della stesa procura), firma la scarcerazione scrivendo che “non si può parlare di rischio di fuga visto che l’imputato ha dato dimostrazione di volersi difendere nel processo, può escludersi il rischio di reiterazione di condotte criminose (…) non risultando un abituale ed organico collegamento dell’imputato con ambienti della criminalità organizzata”. Parole che innescano negli avvocati di Crespi la quasi certezza della riabilitazione.

Si sbagliano.

Ma prima di ripiombare nell’incubo, Crespi comincia a rinascere riprendendo il suo percorso artistico. Realizza prima il docufilm “Enzo Tortora, una ferita Italiana”, proiettato in oltre 100 città e vincitore del Salento International Film Festival; poi “Capitano Ultimo, le ali del falco” insieme a Raoul Bova ed al colonnello Sergio De Caprio; subito dopo, con Gigi D’Alessio, Sandro Ruotolo e Don Patriciello, mette su “Malaterra”, documentario sulla “terra dei fuochi”.

Il passo successivo è un docufilm sulla piaga dei giovani, la droga, intitolato “Giorgia Vive”, tratto dalla storia vera di Giorgia Benusiglio, che a 17 anni rischiò di morire per mezza pasticca di ecstasy, ma venne salvata da un trapianto di fegato. A patrocinarlo, nonostante l’arresto, i 200 giorni di galera, le gravissime accuse, è l’Anm, Associazione nazionale magistrati.

Di successo in successo, Crespi realizza, con Sergio D’Elia ed Elisabetta Zamparutti, quello che il Corriere della Sera definì “un Caravaggio in movimento”. Si tratta di “Spes contra Spem, liberi dentro”.

Il film viene presentato dal ministro della Giustizia Andrea Orlando (che lo definisce “un manifesto contro la mafia”) al Festival di Venezia nel 2016, proiettato al Festival del Cinema di Roma, portato nelle carceri italiane dal capo della procura di Napoli, Giovanni Melillo, e mandato in onda su Sky Cinema e Sky Atlantic.

Ma Crespi lo porta anche nel carcere di Opera, quella stessa prigione che lo aveva visto detenuto e che adesso, come una sorta di riscatto, lo accoglie come regista (qualche giorno fa il Tribunale di Sorveglianza di Milano, grazie anche al progetto di recupero dovuto al film di Crespi, ha modificato la pena da “ergastolo ostativo” a “ergastolo normale” per due dei protagonisti di “Spes Contra Spem”, i detenuti Vito Baglio e Gaetano Puzzangaro).

L’ultima opera del regista è il docufilm “Generale Mori. Un’Italia a testa alta”, un ritratto di un uomo di Stato che attraversa 50 anni di storia del nostro Paese. La rinascita di Crespi, però, viene stroncata dall’ottava sezione penale di Milano, che lo condanna a 12 anni di reclusione per “patto di scambio politico mafioso” a fronte dei 6 chiesti dal pm.

A nulla sono servite tutte le prove che palesano la sua totale estraneità ai fatti: le accuse, innanzitutto, si fondano esclusivamente su intercettazioni nelle quali terze persone parlano tra loro citando Crespi, la cui voce non compare mai; il processo si basa su “presunzione di reati”, in quanto non ci sono captazioni relative al periodo delle elezioni regionali del 2010; le uniche intercettazioni in cui compare Crespi sono del 2011, quando Alessandro Gugliotta, uno dei suoi accusatori, lo chiama per chiedergli un aiuto per una candidata, Sara Giudice, e Crespi, disinteressato, prima spiega che c’era poco tempo per mettere su una campagna di comunicazione, poi si offre per qualche sondaggio o un articolo sul quotidiano che allora dirigeva, infine afferma che si trova in Albania a seguire la campagna elettorale di Edi Rama, attuale premier Albanese (come conferma il colonnello Carparelli, che coordinò le indagini).

Inoltre, Costantino non ha mai conosciuto Crespi, come riferito dallo stesso colonnello Carparelli, e Zambetti non ha mai visto Crespi, né ha mai parlato con lui, prima dell’incontro fra i due avvenuto solo nei corridoi del carcere di Opera. Quanto ai voti, le analisi condotte dal politologo esperto di flussi elettorali Roberto D’Alimonte dimostrano che in ciascuna delle 1.247 sezioni presenti sul territorio del Comune di Milano, non vi è alcun picco di voti a favore di Zambetti, visto che il massimo delle preferenze da lui ottenute è pari a 38 voti (Costantino, in un’intercettazione ambientale, afferma, al contrario, che Crespi controllava il voto di interi condomini milanesi, attraverso i quali avrebbe procurato a Zambetti 2500 preferenze). Non solo. Costatino, che durante il processo ha chiesto scusa a Crespi per aver millantato la sua conoscenza, periziato su disposizione del Tribunale del Riesame, è risultato affetto da disturbo della personalità NAS (schizotipico, narcisistico ed istrionico).

A riprova della sua abitudine a inventare storie, infine, c’è un’intercettazione in cui lo si sente dire che venne convocato dal Questore di Bergamo, il quale prima lo avrebbe messo a conoscenza dei fascicoli contro di lui, e poi gli avrebbe assicurato che se avesse compiuto azioni criminali in quel territorio, una condanna a 10 anni non gliela toglieva nessuno. Su questa millantata “trattativa lombarda” fra Stato e ’ndrangheta, nessuno ha indagato, perché investigatori, procura e giudici ritennero Costantino non credibile. E così è.

Ma allora, perché lo sarebbe quando accusa Crespi? Questi i fatti, dunque, innegabili, che non sono bastati ad evitare al regista una pesantissima condanna in primo grado.

A ribaltarla, il 21 febbraio prossimo, potrebbe essere la Corte d’Appello di Milano presieduta dal giudice Oscar Magi, relatori Piero Gamacchio e Patrizia Re. Sono loro ad avere in mano la vita, la dignità e la libertà di un uomo perbene.

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