DANIELE CAPEZZONE SCRIVE DI “SPES CONTRA SPEM, LIBERI DENTRO”

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“I DON’T DREAM AT NIGHT, I DREAM AT DAY, I DREAM ALL DAY; I’M DREAMING FOR A LIVING.” - Steven Spielberg

Di Daniele Capezzone per Formiche – Ambrogio Crespi è un filmaker sensibile e dallo stile consolidato, già sperimentato nella sua precedente prova del lungometraggio su Enzo Tortora (“Enzo Tortora una ferita italiana”). Stavolta, con la collaborazione – per la sceneggiatura – del fratello Luigi Crespi, e – per i dialoghi – di Sergio D’Elia di Nessuno Tocchi Caino, si è cimentato in una missione impossibile, e però magicamente riuscita.

Il docufilm si intitola “Spes contra spem – Liberi dentro”, è stato proiettato al Festival del Cinema di Venezia, questa settimana è stato presentato anche alla Camera, e il 4 dicembre prossimo sarà trasmesso su Sky Atlantic. Il tema al centro del lungometraggio, proibitivo e controverso, è quello dell’”ergastolo ostativo”, cioè dell’ergastolo nella versione più dura, senza fine, di fatto senza possibilità di uscita.

È evidente il tentativo di aprire un dibattito – senza peraltro sposare una tesi precostituita – sulla congruità di questo strumento penale rispetto alla Costituzione tuttora vigente, in particolare rispetto all’articolo 27, che presupporrebbe comunque un obiettivo di recupero dei condannati (comma 3: “le pene devono tendere alla rieducazione del condannato…”). Se la speranza di uscita è pressoché totalmente preclusa, che recupero può mai esserci? Ma Crespi non prende parte, non scrive un saggio giuridico, e nemmeno si abbandona a un racconto scontato. Ognuno può farsi la propria opinione.

Crespi – e fa bene – fa un’altra cosa. Prende due telecamere, le punta addosso ai volti di una dozzina di ergastolani, e, grazie alle domande di D’Elia, li fa parlare: su quando abbiano davvero iniziato a odiare, sui crimini orrendi che hanno commesso, sugli anni già trascorsi in carcere (da 19 a 26, per i detenuti che compaiono nel film…), sulle loro famiglie rimaste fuori ma propria volta colpite da questo naufragio esistenziale, e – doverosamente – sulle vittime. Non si fanno sconti, non c’è pietismo, non c’è lacrima facile.

Questo racconto serrato è alternato con le testimonianze del direttore del carcere di Opera Giacinto Siciliano, del capo del Dap Santi Consolo, degli ispettori di polizia penitenziaria che quotidianamente si occupano di questi detenuti, e che sono anche loro – diversamente ma ugualmente – reclusi.

Culturalmente, è un autentico evento: il ritorno di volti scavati e segnati (in epoca di faccine, di emoticon, o – peggio – di visi reali resi irreali dal trucco televisivo), e soprattutto il ritorno della parola che pesa (in tempi di tweet, di post, di chiacchiere che volano via): e di una parola tanto più forte quanto più è incerta, non elegante, non “da copione”.

Cinematograficamente, siamo dinanzi (non so quanto Ambrogio Crespi stesso abbia avuto modo di ragionarci preventivamente, di “programmarlo”, di tentarlo…) a una prova tecnicamente “bergmaniana”: lunghissimi primi piani sui volti, di fatto trascurando sfondi, scenografie, “distrazioni”. Solo primi piani, luci, parole. E però – qui sta la magia – a parlare non è Max Von Sydow o un altro dei leggendari interpreti bergmaniani: ma una dozzina di ergastolani, che raccontano il loro dolore, la loro sconfitta, una vita distrutta (anzi: più vite distrutte), e un’improbabile (eppure viva!) speranza…

“Spes contra spem” rimanda certo a San Paolo. Ma anche, più vicino a noi, a un’ossessione – linguistica e intellettuale – di Marco Pannella: la “speranza soggetto” contro l’assenza dell’”oggetto speranza”, “essere speranza” anche quando non la si ha.

Non so se Pannella avesse ragione. La speranza, a ben vedere, ha anche qualcosa di duro e crudele, nel costringere a vedere un futuro anche quando tutto – razionalità, buon senso, dati oggettivi – lo precludono o lo precluderebbero.

Ma a Ambrogio Crespi un piccolo grande miracolo è sicuramente riuscito: nel mostrarci questi vinti, questi murati vivi, ci parla – certo – di loro, ma ci parla anche di noi. E ci ricorda che il “mostro” è spesso un altro volto possibile di noi stessi. Guai a dimenticarlo.